14 Lug Il classico da rileggere: La lingua salvata di Elias Canetti
I classici: roba da intellettuali nostalgici? Niente affatto! Al contrario, ci stupiscono per la loro capacità darci alcune chiavi d’interpretazione dell’attualità. Prendiamo ad esempio “La lingua salvata” del premio Nobel Elias Canetti, primo volume di una autobiografia in 3 parti (seguono “Il frutto del fuoco” e “Il gioco degli occhi”).
Canetti, discendente di una famiglia ebrea sefarditi, bulgaro naturalizzato britannico di lingua tedesca è stato uno “sradicato” ante-litteram. Anzi, un pluri-radicato. Basta gettare un’occhiata ai titoli dei capitoli nell’indice dei suoi primi 16 anni: Rustschuk, Manchester, Vienna.
È la storia di in bambino che perde in continuazione i punti di riferimento geografici e sociali, diventando paradossalmente lui stesso – in quanto primogenito – il punto di riferimento della madre rimasta vedova.
Cosa tiene insieme questo adulto in miniatura, venuto da lontano e gettato nel mondo, a confronto con modelli plurimi, lui stesso privato del modello paterno? Nessun aggancio alla realtà concreta, ma un legame profondo con la letteratura – una passione nata prestissimo con “Le mille e una notte”, le fiabe dei Grimm, “Robinson Crusoe” e “I viaggi di Gulliver”, una passione coltivata su testi via via più impegnativi e, soprattutto, tenuta viva dagli accesi dibattiti serali con la madre, colta e raffinata.
In quest’era liquida, in cui i popoli hanno paura di perdere la loro identità nelle migrazioni e nella difficile convivenza multiculturale, i libri “del cuore”, quelli che ci hanno formato, possono essere ben più di soprammobili su uno scaffale o di un vanitoso elenco di download. Possono essere la nostra casa virtuale, il memento della nostra storia, la carta d’identità della nostra anima.